La City a Londra si va estendendo inesorabilmente, come un’inondazione. Si può viaggiare dentro ad essa come ad un’altra città, che ogni tanto appare come incastrata o sovraimposta al resto.

 


 


Poco più avanti, è una zona di confine: da un lato si vedono palazzi di pietra in stile liberty, chiari, solidi. C’è qualche sprazzo di vetro, qualche piccolo edificio moderno che sembra nato quasi per caso. Ma è un’eccezione, perché il cuore della finanza londinese, il ‘miglio quadrato’ che ruota intorno a quello che era l’antico municipio, sembra in un certo senso essere immune a quella mania tutta britannica di prendere e abbattere, senza pensarci troppo. Dall’altro lato c’è il confine est, Liverpool Street, Shoreditch, dove la City si sta invece espandendo, mangiandosi le vecchie periferie, zone un tempo malfamate, ora alla moda, domani parte del cuore pulsante della finanza mondiale. Qui il vetro domina.

Da lì si vedono quattro ragazze in un tailleur blu elettrico, che sorridono dentro alla reception tutta trasparente. Alle loro spalle, un gigantesco acquario dove nuotano pesci tropicali. All’esterno, la City sembra una vasca ancora più grande.

Londra è la capitale della finanza mondiale, secondo il Global Financial Centres Index, e i flussi di investimento che vi si concentrano crescono costantemente. In poco più di un chilometro quadrato nella City si trovano 15mila compagnie, che hanno generato da sole 58 miliardi di euro nel 2014. Senza contare il resto della città. Sono cifre che superano New York e Hong Kong, e che fanno scomparire i numeri di Milano o Francoforte. Quello che spesso si sente dire nel Business Club Italia, il think tank della nostra comunità finanziaria a Londra, è che una grossa fetta delle decisioni su come vengano investiti capitali italiani in imprese italiane vengono sì prese da italiani, ma a Londra.

Non a caso molti dei top manager della finanza londinese sono italiani o di origini italiane, come il Managing Director di J.P. Morgan, Alessandro Barnaba, l’Amministratore Delegato di Vodafone, Vittorio Colao, o quello di General Electric Oil & Gas, Lorenzo Simonelli.

E’ il caso anche di Massimo Della Ragione, partner, co-head della divisone di Investment Banking e country coordinator per l’Italia di Goldman Sachs. «Questo è il posto naturale dove fare finanza», ci dice Massimo nel suo ufficio su Fleet Street, nella vecchia City. Londra ha le infrastrutture, la lingua e la logistica per essere il centro della finanza mondiale. E il fuso orario: mentre parliamo, oltre la porta della sezione investment banking si lavora con Hong Kong, dove è pomeriggio. Dopo pranzo si inizierà con New York, dove sarà mattina.

Massimo ci racconta poi di come ha visto cambiare il settore nei venticinque anni che è stato a Londra, così come il ruolo degli italiani. Quando arriva all’inizio degli anni Novanta ne conosce forse due o tre nel suo ambito. Ora ce ne sono centinaia. L’investment banking è infatti un business globale, e va dove ci sono le opportunità più interessanti. Durante l’ondata di privatizzazioni degli anni Novanta i mercati internazionali si interessano all’Italia, e in questo modo gli italiani si fanno conoscere sulla scena mondiale. E ottengo un ruolo stabile, diventando attori tra i più importanti in compagnie come UBS, Morgan Stanley, JP Morgan, che hanno ormai il cuore delle proprie attività a Londra.

La City è poi soprattutto una terra delle possibilità per chi ha la determinazione per arrivare dove si prefigge. E’ la storia di Aqua Sanfelice di Monteforte, Lloyd’s broker. Ci racconta la sua storia al centro del palazzo della compagnia, un monolito di vetro che alla base ha un immenso open space pieno di scrivanie detto Undewriting Room, o più semplicemente The Room.

Ci parla di quando è arrivata nel ’99 a Londra senza una laurea e ha iniziato a lavorare nel difficile mondo delle assicurazioni, composto per la stragrande maggioranza da uomini, contraddistinto da un forte machismo e dove i deal  con gli underwriter, i sottoscrittori di rischio, si facevano all’epoca per metà ai Lloyd’s e per metà in amicizia dentro a un pub, con un pezzo di carta davanti e dopo un paio di pinte. Aqua lavorava 13-14 ore al giorno, compresi i weekend. Dopo sei mesi aveva già raddoppiato il suo salario e ora è Managing Director di uno dei dipartimenti di fine arts e gioielli più grandi della City.

«Mi presento ogni giorno da un underwriter inglese per convincerlo a prendere un rischio che tante volte non ha nessuna intenzione di prendere», dice scherzando Aqua. Questa frase rappresenta però forse il miglior modo per definire il suo lavoro, e l’attività in cui, secondo lei, utilizza di più la sua italianità.

 


 


Ci porta in giro per i Lloyd’s, fino al cosiddetto Rostrum, sorta di tempietto circolare colonnato in legno che si erge, solitario, al centro della The Room. Vi è custodita la Lutine Bell, la campana che suona per avvisare i broker di un avvenimento positivo (un colpo) o disastroso (due). Nata per comunicare velocemente in tempi in cui le informazioni viaggiavano con lentezza, ora ha una funzione puramente commemorativa: ha suonato per il Titanic, l’attentato alle Torri gemelle, lo tsunami. Incastonata nel suo scrigno antico, racconta il mondo che scorre intorno ad Aqua, ai Lloyd’s, e soprattutto alla City e alla Gran Bretagna, separate dal resto del mondo come un’isola, ma in realtà costantemente interconnesse. Come ogni essere umano, nei versi di John Donne:

 


 


Nessun uomo è un’isola, intera in sé stessa; ogni uomo è un pezzo del continente, parte della Terra intera ; e se una sola zolla vien portata via dall’onda del mare, qualcosa all’Europa viene a mancare, come se mancasse un promontorio, o la casa di un uomo, di un amico o la tua stessa casa. Ogni morte di uomo mi diminuisce, perché io son parte vivente del genere umano.
E così non andare mai a chiedere per chi suona la campana:
essa suona per te.

[John Donne, Meditazione IV]

 

— Foto: la vista sulla Shard, il grattacielo progettato da Renzo Piano, dal Tower Bridge.

 


 


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